Giusy Sica, candidata a donna dell’anno

La Repubblica l’ha candidata come donna dell’anno, Forbes Italia l’ha inserita tra i 100 leader del futuro under 30. Potevamo noi di Clic non intervistarla?

Eccovi Giusy Sica, fondatrice di Re-Generation Y-outh think tank.

Intervista a Giusy Sica (fondatrice del Think Tank Re-Generation).

Dottoressa Sica, come si è accesa la lampadina che ha dato luce a Re-Generation e in cosa consiste?

È nata due anni e mezzo fa, rispondendo a una chiamata del Parlamento Europeo per partecipare allo European Youth Event che si tiene a Strasburgo. Nel corso di quest’evento puoi proporre un tuo progetto e lavorarci per giorni con decisori pubblici e commissari tecnici: le migliori 100 idee entrano nel report Speak Up Europe! che viene poi discusso a Bruxelles. Si tratta di una competizione molto serrata, dato che vi partecipano circa 8.000/9.000 ragazzi da tutta Europa. Io proposi il gruppo Re-generation Y-outh, che già nel nome racchiude una serie di significati fondamentali: il concetto di rigenerazione degli spazi, di cui all’epoca si parlava molto meno di ora, ma anche di rigenerazione delle idee. Inoltre abbiamo lanciato una provocazione ai vecchi stereotipi giocando sulla “generazione Y”: eravamo tutte under 30, tutte donne e tutte del Sud, per far vedere cosa eravamo in grado di fare unendo le nostre forze.

La composizione del team segue il principio della transdisciplinarità: quando ho formato il team ho coinvolto colleghe che avevano competenze diversificate. Eravamo le uniche italiane presenti allo “Speak up Europe!” del 2018 e la nostra idea passò: andammo a discuterla a Bruxelles in Commissione Sostenibilità e Ambiente. Qual era quest’idea? Istituire l’educazione civica e ambientale all’interno delle scuole primarie.

L’anno successivo il Ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e il Ministro dell’Ambiente Sergio Costa hanno firmato un Piano Nazionale per insegnare l’educazione ambientale nelle scuole di ogni ordine e grado.

Speriamo di aver contribuito anche solo in piccolissima parte a questo risultato.

Dopo Bruxelles è iniziato un percorso di crescita e maturazione, abbiamo deciso di andare avanti e continuare a lavorare sui nostri assi portanti: la cultura, l’innovazione sociale, l’educazione e le questioni di genere. Ci tengo a dire che siamo un think tank perché facciamo ricerca all’interno con un apparato scientifico solido e siamo un ambiente lavorativo sano e collaborativo. Siamo effettivamente un serbatoio di pensiero e studio.

Due anni fa ho notato un gap fortissimo nell’ambiente culturale: i numeri dicevano che c’era l’80/90% di donne laureate nelle materie umanistiche, ma ai vertici delle realtà culturali c’erano solo uomini.

Da quest’osservazione è nato il report “100 Best Women in Culture”, che non è una vera e propria classifica, ma un lavoro di ricerca che abbiamo fatto e continuiamo a fare. E poi è nata l’idea di un format “Women in culture” che permettesse alle start-up con una rappresentanza al 70% femminile e che operavano nel settore della cultura e del turismo di accedere a un percorso di formazione e a un riconoscimento. Sono nate molte sinergie tra le partecipanti.

La pandemia ha cambiato i progetti del suo think tank?

Abbiamo dovuto cancellare tutte le attività in presenza, tuttavia non ci siamo perse d’animo: le attività di ricerca sono proseguite e durante il lockdown abbiamo prodotto delle pillole di economia per accompagnare la nostra community nei nuovi scenari che si stavano delineando.

Inoltre abbiamo creato un altro format, Smoothies, per raccontare storie di imprenditrici e innovatrici che si erano contraddistinte nel loro lavoro mettendo in campo strumenti e idee per sopravvivere agli effetti economici della pandemia.

Per me è stato un momento di crescita e la community è sempre stata attiva; ringrazio il mio team per il lavoro svolto. Dicono che le donne non sanno fare rete ma non è vero, con le mie collaboratrici c’è una cooperazione costante.

A luglio ci eravamo fermate per fare reset e riallinearci, dato che la mission negli anni è cambiata e abbiamo dovuto reinventare gli appuntamenti dal vivo. A novembre abbiamo organizzato “Speculum”, un talk con ospiti per vedere la ripartenza con una maturità diversa, uno specchio tra educazione e consapevolezza. A breve intervisteremo dei giovani che si sono contraddistinti nella tecnologia, nell’intelligenza artificiale e nella farmaceutica per metterli in luce, ma racconteremo anche storie di fallimento, perché vogliamo far capire ai ragazzi che si può fare tanto, ma non tutto. La realtà è fatta da tanti no e pochi sì.

C’è una connessione tra inclusione e sostenibilità ambientale?

Assolutamente sì, infatti sono entrambi obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite. Sostenibilità e parità di genere sono due anelli concatenati: avere le stesse opportunità è impossibile senza la sostenibilità ambientale dell’ecosistema in cui viviamo. Dal punto di vista della ricerca, credo che ad oggi non ci siamo concentrati abbastanza su questa connessione e bisognerebbe studiarla di più, perché la sostenibilità ambientale diventa economica e quindi si riversa sulla questione femminile.

Cosa significa essere un’imprenditrice sociale?

Non so se c’è una grande differenza con l’essere imprenditrice e basta, perché ormai l’imprenditoria solo profit non può esistere più, deve essere molto votata al sociale e avere una visione in connessione con le comunità. Per me essere imprenditrice sociale vuol dire rispondere agli stimoli della comunità, assumersi delle responsabilità, e anche se hai 30 anni devi pensare non solo alle generazioni future, ma anche a quelle presenti e più giovani, per lasciare un testamento di attività, progetti e realtà dove rivedersi e rivendicare i propri diritti. Avere l’onestà intellettuale di comunicare anche i propri fallimenti. Io ragiono in termini di responsabilità, non di premi o riconoscimenti.

Perché per lei il territorio è così importante?

Io vengo da una realtà di provincia, rurale, dove c’era un forte discrimine. Questo ti porta all’inizio a odiarla, ma poi ti senti fortunata perché capisci il sacrificio che c’è dietro l’ottenere certe cose: allora inizi ad avere una visione diversa perché vuoi far emergere le peculiarità del tuo territorio e i suoi elementi positivi. È una sorta di riscatto sociale, vuoi trasmettere il fatto che vivere in periferia non significa avere meno competenze. È anche riscatto del territorio, perché senti di dover fare in modo che il territorio ritorni sempre nei tuoi progetti.

Qual è il suo prossimo progetto?

Farò una rivelazione: l’anno scorso volevo lasciare Re-generation Y-outh, era un fardello troppo grosso, inoltre credo che a un certo punto ci si debba staccare dalle proprie idee per tenere la mente creativa. Però la pandemia mi ha fatto ricredere, per via della responsabilità che sento e che ho citato prima, per cui sono rimasta.

Ma c’è un altro progetto a cui sto lavorando con una mia collega, un’innovatrice italiana di 28 anni che vive a New York, e che riguarderà il mondo delle start-up e della cultura al femminile.